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Pizzo del Diavolo di Malgina
Giovedì 28 Maggio 2009
In montagna, come nella vita di tutti i giorni, sono affascinato dalle cose – e dalle persone – particolari, naturalmente rare, fuori dai canoni.
Generalmente il mese di maggio, nell’attività scialpinistica, è dedicato alle cime dai nomi altisonanti e alle alte quote. Il selvaggio itinerario che conduce sulla vetta del Pizzo del Diavolo di Malgina è, in questo senso, davvero eccezionale.
Per poterlo percorrere in sicurezza si deve pazientare fino a primavera inoltrata, quando il lungo e lineare canale si presenta come un’unica enorme valanga, che precipita per 1400 metri, dal passo fin nel cuore dei pascoli al margine del bosco. Il contrasto fra la grande valanga ed i prati, che già offrono erba fresca alle vacche, è di grande suggestione. Affinché vi siano le migliori condizioni occorre poi che la natura abbia combinato sapientemente una moltitudine di ingredienti nelle corrette proporzioni. La neve abbondante, le pareti sgombre, l’assenza di detriti, il sole e il caldo per lisciare la superficie della neve, la temperatura giusta.
Corteggio questa strana salita dall’anno in cui iniziai a girovagare con sci e pelli, inesperto, ma col frenetico desiderio di esperienze e luoghi sempre nuovi. Come spesso accade, le migliori occasioni capitano a sorpresa, tanto inattese, quanto gradite. Sulla catena alpina ristagnano spesse nubi; a sud di essa, invece, splende il sole, nell’aria cristallina e fredda portata dal vento del nord il giorno prima. Per questo giovedì rubato al lavoro l’idea del canalone colpisce la mia immaginazione e vi si conficca con la precisione e la potenza di un coltello scagliato da un’esperto lanciatore. E’ una sensazione che ho imparato bene a conoscere questa; voglia di andare e vedere, irresistibile e coinvolgente curiosità.
Anche Giovanna si lascia convincere senza pensarci su troppo. Così, insieme a Guido, ci incontriamo dopo una dormita che è poco più di un riposo. All’imbocco della valle abbandoniamo l’auto e ci avviamo a piedi nel fitto del bosco, con sci e scarponi sugli zaini e gli sguardi ancora un po’ assonnati. Dopo la lunga camminata, il fronte della valanga si lascia scoprire solo all’ultimo, celato sin’ora alla vista dal folto intreccio di maròs.
Risaliremo tutto il canale con i ramponi ai piedi per via della neve ghiacciata. Il procedere è piacevole e spedito. Chiacchieriamo di un po’ di tutto, la temperatura è fresca, il panorama si apre sempre di più man mano che si sale. Arriviamo sulla vetta quasi senza accorgerci del notevole dislivello coperto, godendo del momento.E’ presto e non c’è fretta.
Calziamo gli sci pochi metri sotto la cima per una prima parte di discesa sostenuta ed entusiasmante. Nel canale il divertimento non è da meno, scivoliamo veloci al suo interno, lo vediamo dispiegarsi ai nostri piedi in tutta la sua lunghezza.
Finita la sciata recuperiamo le scarpette, togliamo un po’ di vestiti e riprendiamo il sentiero nella direzione opposta. Ogni fontana sul percorso è una sosta per bere e rinfrescarsi.
Sono proprio contento e anche i miei due compagni lo sono. Mi piace questa soddisfazione condivisa. Spendiamo il pomeriggio con lentezza, rilassati, come gatti d’estate.
a zonzo tra roccia e neve
1-2-3 Maggio
Finesettimana lungo questo. Per il venerdì sono più pigro del solito, voglia di levatacce pressoché nulla, voglia di fatica molto poca. Combino così con Luca per un’arrampicata relax allo Zucco dell’Angelone. Decidiamo di salire la storica Condorpass, una via facile, ma con un’arrampicata varia, continua e divertente. Siamo due cordate e il caso vuole che entrambe siano composte da un Claudio e un Luca, vi lascio immaginare il caos nel comunicare!
Scesi giù non potevamo certo mancare l’appuntamento con la merenda al solito bar della funivia. Si ciondola ancora un po’ chiacchierando con nuove e vecchie conoscenze incontrate fra i tanti arrampicatori presenti, venuti a giocare su queste belle placche al sole sopra i prati della Valsassina. Soddisfatta la voglia quotidiana di scalata con qualche altro tiro in falesia, raggiungiamo “quelli del Medale”, provati ma vittoriosi, per organizzare il prosieguo del ponte.
Dopo aver risolto una serie di imprevisti rientro una corsa casa. Giusto il tempo di fare una doccia, mangiare un boccone e soprattutto recuperare sci e pelli. In meno di un’ora sono di nuovo in giro. Iperattività inguaribile! L’ospitalità della Giò mi risparmia di nuovo una sveglia che, questa volta, sarebbe davvero preoccupante.
Mi ritrovo comunque, ben prima che il sole si levi, a riempire faticosamente lo zaino, molto più addormentato che sveglio. Destinazione Pizzo Cassandra; con me ci sono Fabio, Giò, Claudia, Efrem e … accidenti non mi ricordo più! La neve è ancora abbondante fino in fondovalle, così si riescono a calzare da subito gli sci. La salita è piuttosto lunga, il tempo ottimo anche se a tratti tira un vento freddo da settentrione tutt’altro che piacevole. La discesa risentirà della gran quantità di neve nuova caduta in settimana: faticosissima ma senza croste traditrici. Per raggiungere il fondovalle sci ai piedi poi, la ravanata è d’obbligo. Prima fra il bosco e il torrente, poi direttamente nel torrente. Si, nel torrente! La piana di larici, dall’aspetto vagamente scandinavo, è solcata da due torrenti gonfi d’acqua di fusione. Ci verrà quasi spontaneo lanciarci nel guado con gli sci ai piedi, grattando con le lamine sui sassi, cercando di rimanere in equilibrio nella corrente d’acqua. Risate a non finire per questa inaspettata conclusione.
Trascorriamo il pomeriggio oziando, leggendo, chiacchierando. Mi stupisco del primo vero caldo. Mi pare di aver vissuto due stagioni nell’arco di una mattinata. Poche ore fa, chiuso nel mio piumino, lottavo contro il vento gelido per cercare di ricacciare le pelli nel sacco; ora, invece, ascolto accaldato i primi grilli della stagione cantare.
A cena divoro la mia abbondante dose di benefici carboidrati osservando silenzioso i miei due compagni. Incrocio alternativamente i loro sguardi, giocando a immaginare ciò che difficilmente la parola lascerebbe trasparire.
Per la domenica abbiamo un programma non troppo dettagliato: arrampicata poco stressante in Valmàsino e falesia al pomeriggio. La mattina ci prepariamo senza alcuna fretta, dopo la colazione organizziamo il materiale e sistemiamo ancora una volta gli zaini.
Mi lego per la prima volta in cordata con Fabio. Per questa mattinata arrampicatoria scegliamo una recente via di Ongaro al Pilastro dei Pesgunfi. Il cielo è assolutamente terso, come capita solo dopo una notte di forte vento da nord. La struttura ha una bella forma e la roccia è lo stesso ottimo granito a placche della Val di Mello. L’arrampicata è di soddisfazione, per nulla banale, fra aderenze delicate, equilibri da meditare, e ripetuti danzanti spostamenti fra conchette e cristalli. Non manca nemmeno un po’ di ingaggio fuori dai chiodi, con tanto di doverosa e liberatoria bestemmia una volta moschettonata l’agognata protezione.
Il resto della giornata trascorre pigramente fra le tante vie del Sasso Remenno e dintorni, insiemte al resto della nutrita e allegra compagnia. La solita birra di fine giornata al solito bar dei rampicanti della valle non basta a soddisfare la mia voglia di stare in giro. Una pizza con tutti ci sta alla perfezione. Così, mentre il traffico del rientro si smaltiva per permettermi un veloce ritorno a casa, ne è uscita un’altra bella serata con la compagnia di Giò, Fabio, Volpe, Ginevra, Michele e Lorenzo.
Percorro a ritroso la solita rotta fino a casa, dove riordino frettolosamente il materiale e mi addormento appagato. La mattina seguente non è più festa. Decisamente no. Ci sono i disegni, l’officina, il caos del cantiere. Ma questa è un’altra storia.
Due giorni valtellinesi
25-26 Aprile
Con venerdì si è chiusa una settimana piuttosto impegnativa e densa di novità. Il lavoro va bene, per iniziare non poteva andarmi meglio. Sono proprio in centro città e questo mi piace. In pausa pranzo posso andare a piedi nei miei posti preferiti: Ticinese, Navigli, Piazza dei Mercanti, Sant’Ambrogio. Tutte le mattine mi guardo le colonne di San Lorenzo dal finestrino dell’autobus traguardando oltre l’arco della vecchia Porta Ticinese. Poi è finalmente attivo il servizio di bike-sharing che, oltre ad avvicinare almeno di un passo Milano alle altre metropoli europee, mi offre la possibilità, una volta sceso dal treno, di montare in sella e andare al lavoro in bici.
Mi ritrovo a preparare lo zaino come un automa: piccozza, ramponi, barrette e il resto delle solite cose. Non sono molto entusiasta, sono stanco, mi devo svegliare alle 4.00 e non ne ho voglia; vorrei qualcosa di più spensierato e godibile e non un ambiente glaciale severo. Prima di infilarmi nel letto chiamo la Giò che, insieme a Fabio, mi propone un programma decisamente più in sintonia con il mio stato. Mi addormento rilassato dopo aver posticipato la sveglia e alleggerito lo zaino del materiale superfluo.
Sabato mattina. Si decide per il Monte Confinale. Nel viaggio in auto chiacchieriamo e studiamo mille linee immaginarie di salite e discese. Prima di calzare gli sci dobbiamo camminare un poco, ma è una camminata piacevole. Il cielo è blu, l’aria frizzante; è bello camminare sull’erba che lentamente si rialza, dopo aver dormito per tutto l’inverno sotto una spessa coperta di neve. Le sfumature di stagione non finiranno mai di stupirmi ed emozionarmi.
Non mi sento in forma smagliante, salgo piuttosto lentamente. I miei compagni sono una più stanca di me, l’altro paziente e senza fretta. Il risultato è che procediamo tranquilli e compatti. Nonostante l’aria fresca, il sole picchia duro e la corona di cime innevate ci bombarda di radiazione riflessa, come fossimo dentro un enorme specchio parabolico. La magnifica vista delle cime che affollano la valle, dal Cevedale al Tresero, offre una buona distrazione mentale dalla sensazione di pollo arrosto.
Al colle, a circa 3.200m e mezz’ora dalla sommità, deciadiamo di spellare e scendere. Scivoliamo a valle veloci e divertiti. La neve è bella e per nulla scaldata, con una spolverata fresca sopra il fondo compatto. Facciamo correre i nostri attrezzi fino alla fine dell’ultima sottile e stretta lingua neve, che resiste ancora tra i crochi e l’erba.
Dopo uno spuntino e la spesa per la cena della sera, ci ritiriamo a casa per un pomeriggio relax. Seduti sul divano, con una bottiglia di birra buona in mano e un bel disco che gira, viviamo la nostra mezz’ora di gloria godereccia e anti-eroica. Per la cena e il dopo-cena converge il resto dei personaggi dai quattro angoli delle Retiche e non solo. Luca e Claudio dal Bernina, Mauro lo chef pignolo, Volpe il ciclo-regista, Marzia , Federico e un Leo notturno.
La mattina seguente siamo alla mercè dei capricci del cielo. E’ grigio ma per fortuna non piove. Usciamo per due tiri alla falesia di Chiuro e una camminata. Il posto, dato anche il tempo, è un po’ tetro, ma abbiamo comunque modo di divertirci.
L’arrampicata impegna a fondo tanto quanto il pranzo. Doppia porzione abbondante di pizzoccheri, doppio giro di sciatt e vino rosso. Il pomeriggio, dopo un pranzo così, non può che essere piacevolemte pigro e ozioso.
Rientro guidando sotto la pioggia battente, negli occhi le immagini di due bei giorni e, scritti con carta e penna a siglarne l’ufficialità, tanti nuovi e golosi progetti per i prossimi mesi, dal Sass Maor al Gran Paradiso passando per il Salbitschijen.
Hai un titolo da suggerirmi?
18-19 Aprile 2009
Perchè stare da solo al mio tavolo, a sistemare la presentazione della tesi di laurea , quando potrei farlo, più o meno agevolmente, mentre guido verso un nuovo attraente finesettimana?
La domanda non è retorica, ma senza troppo sforzo potete immaginarne la risposta.
La Giò, oltre ad avermi invitato per cena, mi ha prenotato una seduta intensiva alla Sirta. Mi fermo quindi qui per la prima piacevole tappa del week-end. In un paio di tiri sono riuscito a fulminare entrambi gli avambracci. Gli usi locali prevedono infatti l’uso di corde rigorosamente da 80 metri e il concatenamento di due tiri alla volta. In altre parole monotiri da 40 metri. Fatte in questo stile due vie cult della falesia, posso passare al livello successivo completando il viaggio.
Qualcuno oggi ha sciato, qualcuno ha scalato, pedalato, qualcun’altro ancora ha avuto un diverbio con una valanga per una questione di precedenze. Ci ritroviamo in otto attorno al tavolo per la cena, l’atmosfera è calda ed accogliente, è semplicemente bello, si sta bene.La serata proseguirà altrettanto piacevole e alla fine si farà notte come al solito. Prima di addormentarmi faccio un ultimo controllo del lavoro svolto durante il viaggio, pare tutto a posto, posso dormire.
Alla mattina, di buon’ora, ci mettiamo in viaggio verso lo Julierpass; ancora una volta a guidarci sarà l’improvvisazione. Al Bernina l’atmosfera non è invitante, ma più in giù, verso la nostra meta, s’intravvede già il sole. Abbandoniamo le auto e ci incamminiamo seguendo l’intuito. Il tempo non è male e il sole non manca di farci visita e scaldarci. La nostra salita si arresta su una panoramica cima che scopriremo, una volta a valle, chiamarsi Piz da las Colounnas. Bizzarra la toponomastica rumantsch, no?
La discesa ci regalerà qualche tratto divertente e un bel po’ di crosta traditrice. Poco male, noi ne siamo ugualmente soddisfatti. Facendo due o tre volte le scale di casa poi, possiamo ritenere di aver superato il quorum dei fatidici 800m di dislivello.
Il solito spuntino e poi il rientro. Oggi per variare abbandono il Maloja e, per chiudere il trittico, dopo Bernina e Julier scelgo il San Bernardino. La lunga discesa fino a Thusis la farò in comapagnia di due ragazze di Lucerna che ho incontrato al passo. Da qui proseguirò da solo nella mia rotta verso Sud.
Sarei portato a concludere anche questo racconto dicendovi, ancora una volta, che sono stati due ottimi giorni. Però diventerei ripetitivo. Da qualche mese ormai mi diverto qualcosiasi cosa faccia, che ci sia il sole o la pioggia, senza bisogno di troppi programmi, di prestazioni eclatanti e cime o pareti altisonanti; facendo semplicemente ciò che mi piace. Mi diverto e sto bene e basta. Non so se sono cambiato io, se è cambiato ciò che mi sta attorno. Tante persone mi circondano e di ognuna voglio coglierne l’energia positiva e il sorriso per dispensarne a mia volta.
Me(ie)ntal trip
11-12 Aprile
Incipit
Il progetto di questo giro era stato siglato già la scorsa settimana, a cena, prima di metterci in viaggio per la Val Bedretto. Un fitto scambio di comunicazioni, con ogni sorta di mezzo a nostra disposizione, si è reso comunque necessario per ottenere un minimo di organizzazione e contarci. Per minima organizzazione intendo scelta della valle e poco più. Sabato all’appuntamento in frontiera sono presenti Fabio, Luca, Angelo e Livio. Con noi, oltre alla solita mercanzia utile a scivolare, abbiamo sacchi a pelo e materiale di sopravvivenza per diversi giorni, visto l’alone di incertezza che avvolge questo finesettimana pasquale. Per dormire, fedelissimi alla linea avventurosa, non abbiamo infatti prenotato nulla. E proprio la ricerca di un tetto riserverà nel seguito avvincenti sorprese.
Sbucati dall’altro lato delle Alpi ci siamo lasciati alle spalle la pioggia, ma non troviamo purtroppo l’estate. Abbandoniamo il nastro dell’autostrada e risaliamo in breve la strada del Sustenpass fin dove un muro di neve segna inequivocabilmente la fine del tratto transitabile. L’umore dei partecipanti, al momento di mettersi in marcia, varia tra il pessimismo più nero e l’imperturbabile allegria, con tutte le sfumature del caso.
Destinazione Grassen.
I 5 km di strada innevata che ci tocca percorrere non sono propriamente piacevoli e nemmeno pochi. La salita vera e propria inizia con una ripida traccia che ci porta all’edificio in pietra della Sustlihütte. Il tempo non è molto bello, si sta alzando il vento e nubi grigie si ammassano compatte contro i fianchi dirupati della valle. Breve consultazione e con un traverso discendente ci portiamo nel fondo di un bacino glaciale, puntando ora alla cima dell’Uratstock. Il ghiacciaio è ripido e ciò ci permette di guadagnare quota finalmente in modo veloce. Raggiunto il colle del Grassen, alla sommità del ghiacciaio, possiamo solo concederci un fugace sguardo verso la mole del Titlis col suo estetico pilastro sud-est e sul sottostante Wendengletscher. Un vento gelido e rabbioso ci sputa indietro da dove siamo arrivati. Alpinismo e fastidio! Espressione con la quale sono solito definire ogni situazione rognosa in montagna. In fretta e furia ci prepariamo per la discesa. Per fortuna dopo una decina di curve tutto torna entro livelli accettabili e la discesa si rivelerà assolutamente piacevole. Il rientro sulla lunga strada, martoriata dalle valanghe, mette fine alle fatiche.
Wassen.
Riposti gli attrezzi caliamo sul paese di Wassen in cerca di cibo. La dura realtà non tarda a manifestarsi. Questi paesi, così pittoreschi se visti dall’auto, con la chiesa sul poggio erboso, la banca, l’hotel e la pompa di benzina, sono di una desolazione disarmante. Dopo una sommaria esplorazione del paese rimontiamo in auto guidando sulla cantonale in direzione nord, ma un’interruzione stradale affossa definitivamente le nostre ambizioni culinarie. E’ a questo punto che un’illuminazione folgorante ci porta a valicare nuovamente le Alpi per ritornare, sulle orme di domenica scorsa, ad assumere una nuova overdose di colesterolo.
Tornati al nostro paese deserto, ci mettiamo alla ricerca di un posto per dormire. L’idea di una notte all’addiaccio è stata scartata per non saper come ingannare il tempo sino al tramonto. In paese ci sono più alberghi che abitanti; presumibilmente nella bella stagione ci sarà una buona presenza di turisti.
L’ostello è chiuso. Facciamo visita ad un appartamento per vacanze, ma sembra deserto; accanto alla porta spiccano però una voliera enorme con due soli piccoli pennuti all’interno e una macabra campana del vento i cui battacchi sono realizzati con ossa.
Facciamo un tentativo in un albergo dall’aria un po’ dimessa. Dal citofono esce solo un’esclamazione in un idioma incomprensibile, ma che dal tono è senza ombra di dubbio un’imprecazione a noi rivolta.
Sghignazzando per l’accaduto approdiamo in un altro albergo. Attraverso le finestre notiamo del movimento, così si decide di fare un tentativo. Oltre la porta non c’è la classica reception di un hotel; mentre noi entriamo titubanti, una ragazza a dir poco ambigua esce rapidamente dall’edificio. Dobbiamo aprire un’altra porta che si affaccia lateralmente sul corridoio con il pavimento di moquette. Entriamo così nel bar dell’albergo. Fà caldo e l’aria è satura di fumo. Ci viene incontro un personaggio robusto e panciuto, viso dai lineamenti spigolosi e barba di qualche giorno. Nell’angolo in fondo alla sala altre persone stanno fumando e giocando a carte. Ci mettiamo poco a realizzare che deve sicuramente trattarsi dell’hotel dei russi di cui Angelo ci ha parlato. Dobbiamo spiegare al russo cosa vogliamo, ma non è semplice trovare una lingua comune per capirsi. La scena è surreale: ci troviamo nel bar di un’hotel, in un piccolo cantone di lingua tedesca, a parlare con un russo in un incerto spagnolo. Il russo alla fine ci fa accomodare su due divani di pelle nera. Alcuni particolari colpiscono la nostra attenzione e le conseguenti congetture non fanno che accrescere il senso di disagio.
Dopo il nostro ingresso, il solito russo ha chiuso accuaratamente la porta. La ragazza incontrata all’ingresso aveva tutta l’aria di essere dedita all’antico mestiere. I tizi che giocano a carte e fumano sono loschi che di più non si potrebbe. I vani delle finestre sono illuminati da neon rossi e oggetti di dubbio gusto completano l’arredamento.
Di sicuro sono tutti affiliati alla mafia russa. Lo scenario più plausibile sembra essere quello in cui l’albergo è un avamposto per i loro illeciti traffici dalla madre patria verso il sud europa. Le due ragazze presenti completano invece l’offerta rivolta al cliente.
Non senza qualche timore, ci leviamo da questa situazione adducendo all’ambigua cameriera una scusa palesemente infondata.
Riprendiamo la ricerca facendo visita all’ultimo albergo rimasto.Questo fa al caso nostro. La proprietaria parla solo schweizerdeutsch e ciò ci rassicura. Quanto al gusto degli interni non siamo messi molto meglio. Il fiore all’occhiello sono sicuramente le lampade a muro, in acciaio lucidato e foggiato a testa di toro con anello al naso, simbolo del canton Uri. Il dettaglio più trash è sicuramente rappresentato dagli occhi del cornuto, realizzati con due piccole lampade rosse. In compenso le camere sono belle e confortevoli e per testare i letti ci assopiamo nel tardo pomeriggio svegliandoci solo alle nove di sera. Ci ritroviamo nella sala per un boccone e una birra, col timore delle rappresaglie della mala russa. Vista la lieve entità del torto da loro sùbito, ci aspettiamo solo qualche raffica di kalashnikov rivolta all’indirizzo delle nostre auto; poca cosa insomma.
Destinazione Zwachten. O Gross Spannort?
La notte trascorre tranquilla e al mattino, di buon’ora, percorriamo gli stessi tornanti del giorno prima. Questa volta però scegliamo una zona che ci risparmi la lunga strada innevata. Ci inoltriamo in un largo vallone, ingombro di valanghe, in direzione della Sewenhütte. Il tempo purtoppo risente ancora della vicinanza della cresta di confine. Nubi dispettose e irriverenti la scavalcano da Sud verso Nord incuranti dei gradienti barici, come bambini fuori controllo durante la ricreazione nel giardino della scuola. Si sale, piuttosto velocemente, superando stretti canali, ampi ripiani e ripidi pendii. Avvicinandoci alla testata della valle, in marcia verso lo Spannort, l’ambiente muta velocemente sino ad assumere fattezze tipicamente dolomitiche. Il sipario roccioso che ci sovrasta è solcato da profondi camini ed evidenti pilastri di roccia grigia e gialla.
Al colle si ripresenta il solito vento arrabbiato a prendersi gioco dei nostri programmi; la parte di interesse sciistico ormai è stata salita, tanto vale lasciar perdere quei pochi metri che ci separano dalla vetta e lanciarci lungo l’invitante discesa. La sciata sarà appunto di grande soddisfazione, su pendii sempre molto ripidi e con alcune varianti gustose.
Ipercolesterolemia.
Tornando a valle diamo un passaggio ad una coppia di scialpinisti della svizzera settentrionale. Sono simpatici, chiacchierando un po’ con loro scopro la ragione della dimensione dei loro sacchi. Sono partiti in treno da casa facendo una traversata di tre giorni. Ora, sempre in treno, cambieranno valle per un’altra gita. Esprimo loro riconoscimento e stima per il bello stile con cui viaggiano e fanno alpinismo, mentre dentro di me il contagio è già avvenuto e con la mente frugo tra i miei progetti di scalate e viaggi, rivisitandoli in quest’ottica.
Come potrete immaginare, per il pranzo-merenda ci rechiamo al solito posto, quello di ieri e di domenica scorsa, sempre lui. Ormai la proprietaria ci conosce. Si informa sulla nostra attività scialpinistica e ci procura un tavolo nonostante il pienone pasquale.
Placata la fame resta da compiere il viaggio di rientro, accompagnato da discussioni interessanti e progetti avvincenti.
Il sole si è fatto un po’ desiderare. Mi dispiace per i miei soci che non hanno potuto godere appieno della selvaggia bellezza della valle. Personalmente mi sono divertito molto, è stata una bella esperienza e abbiamo fatto delle belle sciate. La prossima volta ci sarà il sole, speriamo che nessuno se ne lamenti!
Giro del Cristallina
Il parto di questa trasferta in terra elvetica è stato il culmine di un lungo travaglio per cercare, senza successo, di coinvolgere tutti. Per non prenderci troppo sul serio,andando a dormire dopo aver riempito lo zaino e programmato la sveglia ad orari preoccupanti, ci sistemiamo alla partenza della gita la sera prima. Non per arrivare in cima prima di tutti, ma per dormire due ore di più, naturalmente.
Abbiamo un programma di massima ideato in pochi minuti e sappiamo che le condizioni del tempo e della neve sono favorevoli. Tanto basta, per tutto il resto ci affideremo ad una buona pratica dello scialpinismo-a-vista. Questa volta l’appuntamento è qui a Como, per uno spuntino, che poi diventa un’abbuffata di quanto di meno digeribile il menù possa offrire, che a sua volta si trasforma in una piacevole serata, perchè in fondo la Val Bedretto è vicina e non c’è fretta di salire. Quando facciamo scorrere le chiusure zip dei nostri sacchi è decisamente notte.
All’alba la sveglia suonerà tanto precisa quanto invano; ci vorrà infatti una mezzora abbondante per trovare sufficiente motivazione a saltare in piedi. Una doverosa colazione ed una sistemata di rito agli zaini aprono le danze. Nell’inconfondibile fresco delle mattine di primavera, la giornata si preannuncia splendida. Con andatura scorrevole e godibile risaliamo la valle, ancora fredda e addormentata, coperta dalle ombre lunghe delle cime che la contornano. All’ampia sella del Passo di Valpiana, piacevolmente investiti dai raggi del sole, inauguriamo la lunga serie di togli e metti pelli, alcuni necessari, altri di semplice piacere. Una manciata di belle curve ci deposita sull’ampio pianoro glaciale sottostante; qui riprendiamo a salire fino a guadagnare il passo successivo. Solita trafila: spellare, chiudere gli scarponi, bloccare l’attacco e poi giù per una nuova bella sciata. Con un’altra ora abbondante di salita ci ritroviamo tutti insieme sulla sommità della Cima di Lago a godere della quinta di cime,valli e ghiacciai che ci avvolge tutto attorno. La discesa sarà di soddisfazione, su uno strato di neve farinosa appoggiata ad un fondo compatto e regolare.
L’ultima risalita della giornata ci consegna alle comodità della Capanna Cristallina, una bella architettura contemporanea, lontana anni luce dal kitsch e dalla falsità di tanti,troppi edifici montani. Un parallelipedo, rivestito in listelli di legno naturale, segnato da aperture regolari, che pare appena appoggiato alla montagna, poco sotto una panoramica cresta. Abbiamo tutto il pomeriggio per riposare e rilassarci. Il tempo così trascorso in rifugio, in compagnia, è un indubbio piacere.
Il mattino seguente, varcata la soglia del rifugio, siamo accolti da un cielo azzurro e una temperatura mite, che caricano gli animi e promettono una nuova bella giornata. Si parte in discesa, saliremo infatti alla Cristallina da Est, girandole attorno, per poi scendere dal più gettonato versante occidentale. Un po’ di polvere e un lenzuolo di neve liscia e intonsa ci fa scivolare verso l’appuntamento con gli altri due soci. Riunito il gruppo, rimontiamo un ripido canale, ancora in ombra e gelato; il sole ci attenderà pigramente solo al Passo di Narèt. Ero proprio curioso di affacciarmi su questa valle selvaggia, remota e poco frequentata. La discesa nel vallone sottostante merita la fatica di togliere ancora una volta le pelli. Niente male, qualche bel curvone sul ripido e poi sci dritti finchè l’attrazione gravitazionale lo consente.
Si riprende a salire ripidamente verso la nostra cima; nelle zone incassate l’aria è rovente,immota. Più su per fortuna arriva una leggera brezza a rinfrescarci. Fatto il più della salita, a separarci dalla cima, rimane ora una calvata in cresta che richiede un poco di attenzione. Ancora una volta ci ritroviamo in cima da soli per una piacevole mezz’ora di riposo. Nonostante siano zone piuttosto frequntate, soprattutto in primavera, siamo riusciti a muoverci sempre in solitudine.
Il pendio è sicuro, così, con qualche salto, scendiamo direttamente dalla vetta. La pendenza è sostenuta, la neve polverosa e ancora vergine. Un gran divertimento insomma. Dal rifugio proseguiamo la discesa lungo la Val Torta compiendo così un giro ad anello. Tratti di buona polvere si alternano alla neve primaverile su cui scivolare veloci con traiettorie larghe. Infine,dopo qualche acrobazia nel bosco, raggingiamo il bordo della strada di fondovalle. Per chiudere il cerchio ora non resta che recuperare il mezzo lasciato il giorno prima qualche chilometro più a monte.
Una trasferta così ben riuscita non può non chiudersi che con le gambe sotto al tavolo e un rösti al formaggio dentro al piatto, servito dalla cameriera teutonica dai modi un po’ spigolosi, che non ci risparmia nemmeno un veloce ripasso di fonetica tedesca.
Questa a grandi linee è la mia storia di un bel giro sugli sci. Potrei tediarvi con relazioni, dislivelli,tempi o difficoltà. Oppure dedicarmi al gossip, raccontandovi degli incontri fatti. Ma preferisco chiudere qui, dicendo semplicemente che ne sono proprio contento e ringraziando calorosamente per la compagnia la Giò, Fabio, Angelo, Tambo e Max.
strane luci di pioggia splende il sole e fa bel tempo
28-29 Marzo
Sabato, finito di lavorare, si apre la parte divertente del finesettimana con una frettolosa e sommaria prepreparazione dello zaino. Anzi, a dire il vero, lo zaino non l’ho nemmeno preparato. La scena è stata più meno così: bagagliaio dell’auto aperto e io che ci butto dentro il necessario in un disordine tale che, a lavoro ultimato, me ne sono compiaciuto. Sciolina,spazzolino da denti, pelli di foca,sacco a pelo, scarponi, il tutto ben mescolato.
Dopo un boccone veloce passo da Lecco a prendere Luca e saliamo assieme verso Sondrio, dove ci aspettano la giò, Fabio e volpe. La serata trascorre piacevole con i locals che ci guidano per le bettole sondriesi, fra cazzate assortite, racconti spassosi ed esperienze psico-mistiche di run-out (e run-down) sulle placche della val di Mello. All’ora di ritirarci ci affidiamo alla super-ospitalità di Giovanna. Programmi scialpinistici per il giorno dopo ancora assolutamente fumosi. Si vedrà.
La mattina ci svegliamo senza sveglia, segue colazione di livello e laboriosa consultazione di carte e bollettini meteo, incuranti della pioggia che scende oltre la finestra. La scelta ricadrà sulla Val di Campo, laterale della Val Poschiavo. Compattiamo culi e attrezzi sul van per avviarci a questa gita disperata. A crederci, più o meno convinti, siamo io, Luca, Giovanna, Marzia, Angelo e Fabio.
Salendo verso il passo la pioggia diventa finalmente neve. Calzati gli sci ci ritroviamo in breve immersi un paesaggio ovattato ed invernale, nonostante il calendario, sotto una bella nevicata. Al suolo ci sono 40 centimetri di neve nuova piuttosto pesante. Battere traccia è una faccenda decisamente faticosa,così ci si alterna al comando per aprire un varco nella bella abetaia. Nevica e c’è nebbia, a battere si sbuffa come locomotive a vapore, siamo maledettamente bagnati, ma ci si diverte! Dopo meno di un migliaio di metri saliti, ci fermiamo in un punto non meglio identificato a spellare. Per la discesa ognuno si arrangerà come meglio può. Tornati al parcheggio, ormai fradici, per evitare di ammuffire e per soddisfare il nostro appettito, ci ritiriamo in un’altra bettola per dare fondo ad una porzione di patatine fritte formato rancio militare. Prima di rientrare, ci fermiamo ancora un po’ dalla giò per un tè e quattro chiacchiere.
Come sempre le cose improvvisate riservano grandi soddisfazioni. Grazie all’ottima compagnia ne è uscito un bel finesettimana di allegria, risate, sorrisi e un po’ di montagna.
Emozionante Alto Lario
Per chi non è della zona o non conosce i luoghi, il Monte Bregagno è una cima abbastanza tozza ed allungata, posta sulla sponda occidentale del Lago di Como. In estate passa quasi inosservata, coperta com’è di solo prato, senza roccia e senza segni particolari. Quando è ammantata di bianco invece non può non attirare l’occhio dello scialpinista dal palato fine. Il monte è infatti articolato in molti ripidi costoni, che regolari e ben definiti sembrano precipitare nel lago senza soluzione di continuità.
Oggi è arrivata l’occasione anche per me di godere di tanta bellezza. Voglio essere da solo a farlo, voglio che sia tutta per me. Ci sono tutte le carte per una gita da ricordare. Il meteo è ideale e la neve ancora abbondante e di ottima qualità. Dopo aver risalito buona parte del lago, mi inerpico in auto lungo una stradina ripida e sterrata. Lascio il mezzo al suo termine, ai Monti di Labbio , e con gli sci in spalla mi incammino su un bel sentiero nel bosco. Sono solo dieci minuti di marcia per raggiungere la neve, un ottimo aperitivo del magnifico panorama che mi accompagnerà per tutto il giorno.
Le gambe oggi vanno come un locomotore, sto proprio bene, dentro e fuori. Semino gli unici tre scialpinisti che mi pedinano e proseguo finalmente solo lungo l’evidente dorsale. Salgo con passo regolare, mi guardo attorno e ogni tanto scatto anche qualche foto. Tratti gelati sui ripidi fianchi del costone e passaggi affilati richiedono un po’ d’attenzione. Il vento è forte, ma lo ignoro completamente. E poi ormai ci siamo abituati dopo due mesi di vento. In vetta ci resto poco, accucciato dietro il basamento di mattoni della croce,giusto il tempo di mangiare un boccone e spellare.
Finalmente è l’ora di scendere. Da tempo desideravo fare questa gita, ma ad oggi non ero ancora riuscito a concretizzare. Dicono che sia uno degli itinerari più entusiasmanti della zona e io non posso che confermare tutto questo. Il viso e le punte degli sci sono rivolti solo al blu del lago. Oltre l’orizzonte della neve è solo acqua. La ripidezza delle dorsali non fà che accentuare questo senso di proiezione.
Mi lascio guidare dalla neve migliore scendendo lungo il Dosso di Naro, dalla parte opposta rispetto alla partenza. Il firn è da manuale. Fondo mordente e due dita di neve ammorbidita sopra. Finito il divertimento tocca risalire. Così metto nuovamente gli sci in spalla e salgo sulla massima pendenza su neve dura fino a ritornare sull’anticima. Sono contento, in questo modo mi resta ancora un bel po’ discesa da fare. Meravigliosa. Con l’ultima serpentina raggiungo il colle con la piccola chiesa di San Bernardo, dove questa mattina ho calzato gli sci. Mi fermo un poco a riposare e mi disseto ad una provvidenziale fontana chiacchierando con un escursionista di passaggio.
Sarebbe un peccato non approfittare di queste condizioni strepitose e così rimetto le pelli e su di nuovo lungo la dorsale NE per un’ultima piacevolissima discesa. Rientro contento ed appagato lungo il sentiero. La giornata si chiude con una passeggiata defaticante fra i prati ben curati e le vecchie baite di Labbio. Avrei anche la mezza idea di mangiare al bel agriturismo, ma una merenda a selvaggina e rosso mi stenderebbe definitivamente. Meglio rincasare con calma: 10 km in auto sulla mulattiera e poi la solita statale, col traffico della domenica e i motociclisti fastidiosi come zanzare. Poco importa, metto un bel disco e riassaporo le belle discese di oggi.